Lino DE MATTEIS
Lo scioglimento del “Movimento Regione Salento”, per la confluenza del suo fondatore, Paolo Pagliaro, nel partito della premier Giorgia Meloni, contribuisce, positivamente, a sciogliere alcuni pregiudizi, che si sono addensati sul toponimo “Grande Salento”, spesso confuso o assimilato a quel progetto politico. A differenza di quello, invece, l’idea del Grande Salento, per come storicamente è nata, e, poi, riproposta, è portatrice di un sano spirito confederativo, che ha, ripetutamente, animato le province di Brindisi, Lecce e Taranto, dalla tripartizione fascista della storica “Terra d’Otranto”, fino ai nostri giorni. Prendendo atto, infatti, della, ormai secolare, identificazione di brindisini, leccesi e tarantini con le rispettive province, si rende necessaria la ricerca ed elaborazione di nuovi strumenti aggregativi.
Il movimento di Pagliaro, creato nel 2010, si poneva, legittimamente, l’obiettivo di una fusione delle tre province in una “Regione Salento”, autonoma dalla Puglia. Ma le difficoltà incontrate con il fallimento della richiesta di referendum, nel 2011, mettevano in evidenza il problema oggettivo di promuovere dal basso una simile iniziativa, per l’assenza di un sentiment unitario tra brindisini, leccesi e tarantini. Localismi e provincialismi, d’altra parte, avevano alimentato, anche, le vivaci polemiche scoppiate dopo il tentativo di riforma del governo Monti, nel 2012, che prevedeva l’accorpamento di Taranto e Brindisi in una sola Provincia.
Nonostante le polemiche tra brindisini e tarantini, seguite al tentativo di Monti, appare evidente, tuttavia, che un accorpamento delle tre istituzioni, in una “Regione Salento”, o “Provincia Salento”, la si chiami come si vuole, può essere reso possibile, solo, all’interno di una riforma complessiva della governance amministrativa territoriale, a livello nazionale. Una riforma che, auspicabilmente, potrebbe, e, secondo noi, dovrebbe, seguire le indicazioni contenute nel Rapporto 2014 della Società Geografica Italiana, che prevedeva una trentina di regioni, al posto della pletora di province e regioni attuali. Una di queste regioni, era, appunto, costituita dalle province di Brindisi, Lecce e Taranto.
In assenza, però, o in attesa che una simile riforma possa trovare spazio nell’agenda dei partiti e del governo, resta la necessità che le provincie salentine trovino punti di convergenza sulle priorità da affrontare, necessarie alla crescita comune dell’intero territorio. Un’esigenza che non deriva solo dalla lunga storia unitaria dell’antica Terra d’Otranto, ma, anche, dalla consapevolezza che, solo, insieme si possono risolvere alcune criticità strutturali e affrontare, con maggiore forza, le sfide della complessità e della modernità. Per questo il “Grande Salento”, come sosteneva il compianto on. Giacinto Urso, «non è una nostalgia o una moda, ma una necessità», che, oltre alla partecipazione delle istituzioni, richiede anche quella dell’intera comunità.
L’idea del Grande Salento è cominciata ad affiorare alla fine del secolo scorso, col primo protocollo d’intesa, del 1999, firmato dai tre presidenti di Provincia, Nicola Frugis (Brindisi), Lorenzo Ria (Lecce) e Domenico Rana (Taranto). Ha, poi, preso ufficialmente forma, nel 2007, col “Progetto Grande Salento”, lanciato dal protocollo d’intesa dei presidenti Michele Errico (Brindisi), Giovanni Pellegrino (Lecce) e Giovanni Florido (Taranto), e rilanciato, ancora, col protocollo del 2010, firmato da Massino Ferrarese (Brindisi), Antonio Gabellone (Lecce) e Giovanni Florido (Taranto). Il medesimo spirto confederativo ha animato, anche, il protocollo del 2020, “Terra d’Otranto: dalle radici il futuro”, voluto dai sindaci dei tre capoluoghi, Riccardo Rossi (Brindisi), Carlo Salvemini (Lecce), Rinaldo Melucci (Taranto) e dai rispettivi presidenti di Provincia, lo stesso Riccardo Rossi, Stefano Minerva e Giovanni Gugliotti, oltre al rettore dell’UniSalento, Fabio Pollice.
Come si può facilmente comprendere, nonostante che, come sostiene, giustamente, il rettore Pollice, «nel linguaggio geopolitico il termine “grande”, quando riferito a un progetto territoriale, riflette assai spesso un intento autonomistico ed egemonico», tale intento non trova, però, alcun riscontro nell’idea del Grande Salento, che, per la sua storia e le intenzioni politiche, via via attribuitegli, non ha mai avuto pretese egemoniche, annessionistiche, autonomistiche o separatistiche dalla regione Puglia. Nonostante l’apparenza, quindi, questa espressione è da considerare semplicemente una sintesi toponomastica, per indicare, nel loro insieme, le province di Brindisi, Lecce e Taranto, un tempo chiamate “Terra d’Otranto”, un nome diventato oggi anacronistico, pur restando il presupposto storico e identitario di questo territorio.
L’aggettivo “grande” si è reso necessario perché, geograficamente, la penisola salentina non copre l’intero territorio delle tre province, essendoci dieci comuni, il 6,9% dei 145 complessivi, i cui territori cadono fuori, o parzialmente fuori, dall’istmo peninsulare, evidenziato da una retta che da Chiatona, località marina di Massafra, sull’Ionio, va sino a Savelletri, località marina di Fasano, sull’Adriatico. I soli sei comuni del tarantino (Castellaneta, Ginosa, Laterza, Mottola, Palagianello e Palagiano), che ricadono totalmente fuori dalla penisola salentina, rappresentano appena il 4,1% del totale. Se le tre province, rientrassero, dunque, fisicamente, e per intero, nella penisola salentina, non si porrebbe alcun problema, poiché basterebbe il “Salento”, ma, dovendo includere anche questi comuni, che fanno parte amministrativamente delle loro province, si è reso necessario “allargare” lessicalmente il toponimo del territorio prevalente, il Salento, appunto, senza per questo voler annullare storie e identità di nessuno.


















