Pantaleone PAGLIULA
Il vedere uscire tanti giovani da un importante negozio di abbigliamento con borsoni pieni di indumenti mi ha invitato a una riflessione sul modello di business e consumismo verace dell’industria Fast Fashion (moda veloce) che ha un notevole impatto sociale e ambientali. E noto che questa è un’industria del settore abbigliamento non sostenibile ed inquinante che produce capi di abbigliamento per durare solo una stagione e destinati a essere usati e gettati nel giro di poche settimane.
Per soddisfare le esigenze di questo modello di produzione e aumentare il profitto dei brand del Fast Fashion le tendenze cambiano rapidamente supportate da strategie di marketing sofisticate e dall’influenza di “influencer” e personaggi pubblici con il preciso effetto di condizionare e incentivare i consumatori a visitare più spesso i negozi e a acquistare più frequentemente spesso a costi sempre più bassi.
La Fast Fashion ha raggiunto il successo globale per il fatto che dà ai consumatori soprattutto giovani, l’opportunità di indossare capi simili a quelli di tendenza visti sulle passerelle a prezzi molto accessibili e spesso simili a quelli dei mercatini delle pulci. Tutto questo ci fa assistere a una rivoluzione che ha permesso a un vasto pubblico di accedere alla moda ad alta velocità replicando i design di grandi stilisti.
Quasi tutti i marchi Fast Fashion subappaltano le produzioni ad altre aziende distribuite in decine di paesi nel mondo le quali a loro volta possono sottocommissionare il lavoro ad altre aziende più piccole, creando una catena di forniture complessa che coinvolge centinaia di micro e piccole imprese. Questo sistema di subappalti oltre a rendere il controllo della catena di fornitura molto difficile annullano l’efficacia delle certificazioni tessili che attestano la conformità del prodotto o di una azienda a determinati standard di sostenibilità, qualità ed etica.
La produzione di questa moda “usa e getta” avviene principalmente nei paesi in via di sviluppo dove le condizioni igieniche e sanitarie sono molto al di sotto degli standard accettabili e dove vengono effettuate pratiche di sfruttamento umano, discriminazione, lavoro minorile e altri abusi dei diritti umani.
Inoltre questa industria consumando elevate risorse naturali e di energia, con produzione di massa, bassa qualità e prezzi irrisori, genera enormi quantità di rifiuti e inquinamento contribuendo a fare del tessile abbigliamento l’industria più inquinante del mondo.
Dietro le false promesse di sostenibilità spesso si nascondono informazioni fuorvianti (greenwashing) e un impatto ambientale e sociale devastante con una percentuale del 25% di nuovi abiti che rimane invenduta e viene gettata. Ogni secondo un camion di abiti scartati viene bruciato o buttato soprattutto nelle discariche a cielo aperto dell’Africa e dell’Oriente. Solo l’1% è la quantità di vestiti che viene effettivamente riciclata.
La maggior parte dei capi di abbigliamento purtroppo non possono degradarsi come i rifiuti organici e rilasciano sostanze chimiche nel terreno comportando gravi problemi come l’inquinamento delle acque e atmosferico, contribuendo all’effetto serra e ai cambiamenti climatici.
Oltre ai danni creati all’ambiente questi capi indossati recano problemi alla nostra salute che vanno dalla dermatite da contatto, alle tante allergie comuni in tanti giovani e a pericoli più seri in parte sconosciuti causati dal fatto che per produrre questi tessuti si utilizzano diverse sostanze chimiche composte da mercurio, cadmio, piombo, nichel, cromo oltre a coloranti, solventi e pigmenti che sono classificati come cancerogene.
Queste sostanze tossiche, utilizzate nella produzione di tessuti, vengono rilasciate nell’ambiente durante il lavaggio dei capi, contaminando le acque e successivamente il terreno quando i materiali finiscono in discariche.
Sulle etichette viene indicato il tipo di tessuto in percentuale ma non sono elencati gli additivi chimici né la quantità di sostanze che oltre una certa soglia diventano pericolose per cui non esistendo una legislazione unica a tutela di chi acquista abbigliamento vengono immessi nei mercati internazionali capi di vestiario che sfuggono a qualsiasi controllo.
Il mio è un invito alla riflessione e al non seguire solo l’impulso, soprattutto nei mesi estivi e durante i saldi di stagione, dove la voglia di vacanza e gli sconti stagionali danno una spinta all’acquisto del superfluo in maniera superficiale e immediata. Prima di comprare pensiamo al fatto che non c’è bisogno di tanti abiti per vestirsi bene e di utilizzare un abito più volte prima di farlo finire in un cassonetto.
La consapevolezza e le decisioni di acquisto di noi consumatori possono influenzare il comportamento dei brand che si celano dietro facciate di sostenibilità e ecologia superficiale.
Ogni volta che compriamo un capo di abbigliamento guardiamo l’etichetta, fermiamoci a riflettere e non lasciamoci ingannare. Promuoviamo la consapevolezza, il pensiero critico, il consumo consapevole e cerchiamo di identificare e scegliere capi prodotti da aziende virtuose e responsabili che ricercano la qualità rispettando ambiente, etica e responsabilità sociale.
Una educazione a livello familiare e scolastica su temi riguardanti l’impatto dell’industria tessile e sull’ambiente e sulle persone è necessaria per creare consapevolezza. È importante cambiare il modo di concepire e fare la moda sia per chi la produce e sia per chi la indossa. La moda appartiene alla nostra quotidianità, al nostro territorio, alla nostra società, alla nostra economia e al nostro patrimonio culturale e per questo occorre una cultura collettiva e un impegno collettivo verso la sostenibilità non solo come tendenza ma come fondamento anche per il futuro dell’industria tessile e della moda nel suo complesso.


















