Galea dei Cavalieri di Santo Stefano

di Gianfranco PERRI

La caduta di Costantinopoli in mano agli Ottomani il 29 maggio 1453, oltre a significare la fine formale dell’Impero Romano d’Oriente, determinò un profondo cambio geopolitico per l’intera Europa e specialmente per le regioni del Mediterraneo orientale, per le quali fu soprattutto l’equilibrio militare marittimo a rimanere scosso decisamente a favore dell’impero ottomano, perlomeno per più di un secolo, fino a quando il 7 ottobre 1571 a Lepanto ci fu una prima grande vittoria dell’armata cristiana sull’impero ottomano. In questo contesto, sul finire del XV secolo – ed ancor più in quello seguente – ed in particolar modo nei mari della Terra d’Otranto, lo scacchiere divenne complicato e continuamente cambiante, con la presenza di tanti protagonisti di peso e dagli interessi contrapposti: la repubblica marinara di Venezia, la Francia di Francesco I, il regno spagnolo di Napoli dell’imperatore Carlo V e l’impero ottomano di Maometto II, il quale rivendicava apertamente i suoi diritti di possesso su Brindisi, Otranto e Gallipoli, in quanto porti dell’ antico impero bizantino che era stato da lui conquistato.

Baia dei turchi, Monumento ai martiri di Otranto nel 500º anniversario

All’alba del 28 luglio del 1480 alcune decine di migliaia uomini, a bordo di un’imponente flotta turca composta da un paio di centinaia di navi, concentrati a Valona, da lì salparono verso le coste salentine per sbarcare poco a nord di Otranto, presso i laghi Alimini, nella baia poi detta “dei turchi”, da dove si diressero verso la città mettendola a ferro e fuoco. E anche se fu abbastanza accreditata l’idea che l’ammiraglio ottomano Gedik Ahmet Pascià avesse puntato su Brindisi prima di dirottare su Otranto per supposte ragioni meteorologiche, in effetti, la scelta di Otranto probabilmente non dovette essere solo un ripiego occasionale, giacché quella città era palesemente indifesa, mentre Brindisi aveva ricevuto rinforzi, ed in più era infestata da una temibile peste. Comunque siano andate le cose, certo è che quell’evento ebbe così tanta risonanza in tutto il Salento, che a Brindisi crebbe enormemente la percezione dell’ineluttabilità di un prossimo sbarco turco sulla città.

Così, già nel 1481, Brindisi fu fatta fortificare dal re aragonese Ferdinando I, che ordinò al figlio Alfonso la costruzione di una grande fortezza sulla punta occidentale dell’isola Sant’Andrea all’ingresso del porto. E le opere di difesa costiera proseguirono anche con l’avvento degli spagnoli sul trono di Napoli, Ferdinando il cattolico prima, l’imperatore Carlo V dopo, Felipe II, e così via: nella prima metà del secolo XVI si costruì il Forte a mare contiguo al castello Alfonsino e, a partire dall’anno 1569, furono edificate in serie lungo il litorale, ben quattro nuove torri – Testa, Penna, Mattarelle e Guaceto – che vennero ad affiancare la preesistente angioina Torre Cavallo, il tutto ancora a conseguenza del costantemente rinnovato timore di nuove scorrerie e saccheggi da parte di turchi e barbareschi. E per Brindisi il risultato di tutte quelle opere di difesa, si rivelò fruttifero.

Galea turca del secolo XVI

Anche nel resto del Salento, oltre ad altri provvedimenti difensivi furono potenziate ed erette numerose torri costiere. La ricostruzione del castello di Lecce e le riparazioni e rafforzamenti ai castelli di Otranto, di Castro e di Gallipoli; la distruzione di Roca vecchia, nido di corsari; l’invio di milizie straordinarie e di artiglierie. Fra le torri marine furono distribuiti pezzi da fuoco, uno per torre, falconetti di bronzo della portata da una a due libbre di palla, inviati da Napoli a Taranto e da lì a Lecce. «Ne furono consegnati a Uggiano per Badisco, a Vitigliano per Porto Miggiano, a Giuliano (Òmini morti), a Melendugno (S. Foca), a Borgagne (Torre dell’Orso), a Roca Vecchia, a Otranto (S. Stefano), a Salve (Torre dei Pali), a Patù (T. di S. Ligorio), a Morciano (T. Mafeto o del Vado), a Gagliano (T. di Novaglie), a Castrignano del Capo (T. di Bracchiello) e a Salignano (T. Nuova). Difese nuove furono costruite fra Gallipoli e Taranto: le torri di Columena, Greto, S. Caterina e Saturo.» [“Turchi e Barbareschi ai danni di Terra d-Otranto” di Salvatore Panareo in ‘Rinascenza Salentina’ – 1933]

Di fatto comunque, dopo Otranto, di scorrerie e saccheggi su quasi tutte le coste salentine, ce ne furono, perdurarono per tutto il secolo XVII e continuarono – pur diradandosi – anche nel XVIII. La prima eclatante sorpresa del nuovo secolo – il XVI – avvenne a Castro, nel Basso Adriatico, dove il 27 luglio 1537 ‘li turchi’ sbarcarono ottenendo la resa dal comandante del castello dietro assicurazioni che sarebbero state rispettate la vita e gli averi degli abitanti. Più che i patti, naturalmente non osservati considerato il gran numero dei catturati, influirono sulla resa le ingenti forze – 7000 fanti e 500 cavalli – messe a terra dagli assaltanti turchi.

Sinan Bassà Cicala “Rinnegato di Messina”, Ammiraglio-della flotta turca del sultano Murad III

Il 1° gennaio 1547 fu assalito San Pancrazio salentino da cui, colti in piena notte, furono portati via gli abitanti che poi, in parte furono riscattati e in parte furono portati in Turchia e venduti come schiavi. Le mire dei turchi poi, si rivolsero presto anche al Santuario di Leuca, molto frequentato in quel tempo e in voce di possedere un ricco tesoro, il quale subì più volte saccheggi insieme con le vicine terre del Capo: Salve, Gagliano, San Giovanni di Ugento, Marina di Cesaria e altre. E nel settembre del 1594 ci fu addirittura un clamoroso tentativo di saccheggiare Taranto: sbarcate da un centinaio di navi, orde turche condotte dal rinnegato messinese Sinan Bassà Cicala, a più riprese tentarono – vanamente – di entrare in città:

Il 2 settembre 1594, il “rinnegato di Messina” attraversò il canale di Sicilia con novantasei navi, sbarcò a Reggio Calabria e, datisi gli abitanti alla fuga, la incendiò. Il giorno 14 dello stesso mese si diresse verso il golfo di Taranto approdando sulle due isolette delle Cheradi prossime dalla città, Santa Pelagia e la più piccola Sant’Andrea, trovandole deserte ed occupandole. In una prima operazione militare la numerosa truppa turca sbarcò alla foce del fiume Tara e cercò di avvicinarsi alla porta di ponente della città, ma venne respinta dai soldati accorsi sotto il comando del marchese Carlos d’Avalos. Giorni dopo, i corsari tentarono nuovamente di assaltare la città – dal 16 al 19 settembre – questa volta dalla parte di levante, ma ancora una volta senza successo. Poi, il 21 settembre, Sinan tentò di fare accostare la flotta alle mura della città per attaccarle con l’artiglieria e fu nuovamente respinto. Lo sbarco del giorno successivo, il 22 settembre, produsse una battaglia furiosa, questa volta del tutto infausta per l’assalitore, che finalmente decise ritirarsi.

Il momento della negoziazione per il riscatto o per lo scambio degli schiavi

Nel Seicento la pirateria, in generale, si mantenne legata alla guerra di corsa che era comunemente accompagnata da arrembaggi sul mare e da sbarchi in questo o quel luogo, e tale rimase sino alla fine della sua attività. Il fenomeno molto spesso non era al servizio della politica, pur mantenendo protagonismo in esso turchi e barbareschi ma, alimentato dalla delinquenza comune, consisteva essenzialmente in catture e ladronecci ad opera di malviventi d’ogni provenienza. Tra gli episodi più clamorosi per sbarchi e rapimenti nel Salento, fra 1624 e 1626 ai corsari riuscì più volte di saccheggiare e incendiare il Santuario di S. Maria di Leuca e la vicina Castrignano, e poi ci furono gli attacchi a Maruggio (giugno 1637), a Rocca imperiale (luglio 1644) e a Vernole (agosto 1673).

«A dì 5 agosto 1673 giorno di sabato su la mezza notte fu integralmente saccheggiato dalli turchi Torchiarolo, con morte di quattro persone di detto casale e ottantaquattro ne furono fatti schiavi. A dì 10 ottobre 1676 una galeotta turchesca fece sbarco tra la torre della Penna e la torre delle Teste, e fece dodici schiavi dalle masserie vicine e a Brindisi – a causa del grande spavento per quell’assalto così prossimo alla città – si fece costruire la muraglia, ovvero cortina, che sta attaccata tra il torrione dell’Inferno con quella della porta di Mesagne. E nel luglio 1681 anche Specchiolla, presso San Vito dei Normanni e anch’essa vicina a Brindisi, malgrado la resistenza opposta dai terrazzani, fu saccheggiata dai turchi.»

Nel secolo successivo, anche se con meno frequenza del secolo precedente, continuarono i tentativi e le molestie a mano di corsari minori generalmente incoraggiati dalla reggenza di Tripoli, le cui principali entrate derivavano proprio dalla guerra di corsa. Nella notte del 20 settembre 1711 una banda turca sbarcò a Torre della Specchiolla e raggiunse Cerrate, presso Squinzano e ne saccheggiò anche la chiesa. Poi altre scorrerie si registrarono a Cannoli vicino Lecce (1714), a Vanze il 28 aprile 1717 con la cattura di 37 infelici, a Roca nuova (1717) e a diverse ricche masserie più o meno prossime alle coste.

Uno degli aspetti più terrifici di quelle scorrerie barbaresche era il sequestro indiscriminato degli abitanti cristiani sorpresi dagli assalitori, che venivano poi schiavizzati e venduti nei vari mercati nordafricani o che, nel migliore dei casi, venivano rilasciati dietro il pagamento di un congruo riscatto. Si erano infatti costituite organizzazioni e confraternite le quali, con complesse operazioni di intermediari, provvedevano a far conoscere alle famiglie cristiane i nomi dei congiunti caduti in schiavitù e l’entità della somma richiesta per il riscatto.

Il principale impiego degli schiavi uomini era al remo nelle galee

A parte i pochi catturati appartenenti a famiglie facoltose però, i più avevano poche speranze di liberarsi delle catene e dovevano rassegnarsi a trascorrere il resto della vita legati al remo di una galea o, i più fortunati, al servizio di un acquirente privato. Si trattava di fatto di un mercato fiorente su un istituto, quello della schiavitù, in realtà molto antico e considerato del tutto normale all’epoca, praticato sistematicamente e massivamente – è molto importante che lo si abbia chiaro – da entrambi i contendenti: i musulmani da una parte e i cristiani dall’altra.

I catturati, provvisoriamente raccolti in posti vicini, come per il Salento erano Valona o una qualunque delle isole vicine, in seguito erano concentrati in città più lontane, come Costantinopoli, Tunisi, Tripoli, Algeri, e sottoposti a duri trattamenti, sempre che non fossero da subito condannati ai remi. Esposti nei bazar se ne dibatteva la vendita, oppure si fissava il prezzo del riscatto che era notificato a congiunti o a incaricati da questi perché la somma fissata fosse raccolta ed inviata. Un mercato duplice per il quale, di fronte ai depositi degli schiavi cristiani infedeli, ne sorgevano altrettanti nelle città degli stati cristiani, come a Napoli, Messina, Palermo, dove si effettuavano le compravendite degli “altri” infedeli, o dove mediatori laici ed ecclesiastici s’incaricavano di agevolare lo scambio degli sfortunati.

Anche la Chiesa, infatti, fece quanto possibile per la redenzione degli schiavi cristiani. Oltre agli ordini religiosi, come quello dei Mercedari e dei Trinitari, fondati appositamente per svolgere questa missione, vennero anche organizzate collette popolari per la raccolta delle elemosine e processioni in cui, per impietosire la cittadinanza, venivano fatti sfilare per le strade lunghi cortei di schiavi redenti che portavano ancora i segni delle torture subite. I cavalieri di Santo Stefano, dell’ordine del Granducato di Toscana con base a Livorno, non solo difendevano le coste dai corsari musulmani e catturavano navi ed equipaggi nemici, ma anche attaccavano le località costiere musulmane. Quando gli scontri e le azioni di guerra si concludevano con successo, il bottino consisteva soprattutto di schiavi. Tali cavalieri, come del resto anche quelli più famosi di Malta, che assieme furono i grandi protagonisti cristiani della guerra di corsa con le loro imprese sulle coste nord-africane e su quelle anatoliche, erano, pertanto, anche sistematici trafficanti, venditori, eccetera, di schiavi musulmani.

Ebbene, tutto quanto riferito ritrova frequente riscontro anche tra le righe delle cronache cinquecentesche e seicentesche salentine: cronache di scorribande di assalti di rapimenti o di pagamenti del riscatto, ma anche d’acquisto di schiavi musulmani oppure di giovani schiave “che incanutivano al servizio dei nobili salentini perché morissero sterili o madre di schiavi cui il padrone concedeva il nome della casata perché fossero, come schiavi, più legati a lui”, o cronache di battesimi e morti o di liberazione degli stessi schiavi, eccetera.

Khayr al Din Barbarossa, Ammiraglio della flotta imperiale di Maometto II

E neanche mancarono gli abusi in materia, tanto che il viceré di Napoli, Conte di Miranda, nel 1590 dovette proibire che senza sua licenza si chiedesse limosina per riscattare congiunti che si trovavano nelle mani degl’infedeli. Mentre un’altra prammatica del viceré Antonio Alvarez Duca d’Alba, fra le varie che riguardavano gli schiavi turchi, nel 1625 proibiva che si comprassero senza la previa denunzia alla Reale Udienza, perché si era verificato che si fossero venduti ‘cristiani per turchi’.

Per meglio rendere l’idea di come il tema schiavi partecipava comunemente della vita quotidiana salentina, si riportano alcuni passaggi estratti dalla “Cronaca dei Sindaci di Brindisi 1529-1787” di P. Cagnes e N. Scalese, pubblicata da Rosario Jurlaro nel 1978:

«…Il 25 maggio 1553 si perfeziona l’atto di vendita di un’abitazione di Filippo Capasa promessa in vendita dal fratello mentre Filippo era prigioniero dei turchi, per il riscatto del quale si era resa necessaria la somma anticipata dall’acquirente. Il 13 giugno 1599 è battezzata una figlia naturale di Caterina, schiava mora di Visconte Rizzago, commerciante veneto dimorante in Brindisi. Il 17 aprile 1600 è battezzata una figlia naturale di tale Lucia, schiava fatta cristiana e il 24 ottobre è battezzata una figlia naturale di Speranza, schiava mora di Giovanni Camillo Coci.

L’11 maggio 1620 nella cattedrale si sono fatti funerali per Domenico Bucicco, morto schiavo dei turchi. Il 5 agosto 1628 Ferdinando Bassan libera il suo schiavo turco Sciti Jaza a richiesta del greco Pietro Ullano perché potessero, in cambio, essere liberati alcuni cristiani dai turchi. Il 26 novembre dello stesso anno, dopo essere stata istruita e catechizzata dall’arcivescovo Giovanni Falces, è battezzata dal medesimo alla presenza del castellano grande Francesco Carrillo de Santoia, Anna Maria Mancipia, schiava turca del capitano della coorte spagnuola residente in Brindisi Diego Marziale d’Agusti.

Il 13 giugno 1637 il capitolo della cattedrale dà un aiuto economico al cantore della chiesa di Maruggio che andava mendicando per aver fuggito da mano di turchi quando pigliarono Maruggio – il 13 giugno 1630. Il 31 gennaio 1667 un sacerdote greco raccoglie elemosine in Brindisi per il riscatto di schiavi cristiani dai turchi. Il 6 maggio 1672 il capitolo della cattedrale dà due carlini di elemosina ad un uomo che era fuggito dalla prigionia dei turchi lasciando il figlio che sperava di riscattare e il 10 agosto dà dieci grana di elemosina ad un sacerdote greco scappato dalla dai turchi.

Il 2 settembre 1688 è sepolto in cattedrale Gabriele, schiavo turco di Carlo Lata, battezzato in Brindisi e il 7 dicembre 1695 viene sepolto in Brindisi Antonio figlio di Teresa, turca fatta cristiana, serva di Nicolò Romano. Il 28 luglio 1701 è sepolta Anna de Marco, il 30 luglio Maddalena Cuggiò ed il 9 ottobre Nicolò Montenegro, tutti i tre defunti con la specifica ‘ex genere turcarum’ che vuol dire: schiavo della famiglia di cui porta il nome.

Dal 1686 al 1694 molte famiglie di Brindisi, tra le quali Vavotico, Samblasio, Seripando, Montenegro, Stea, Pizzica, Vitale, Brancasi, Sarmiento, Ripa ed altre, acquistano schiave e schiavi turchi ‘a cristianis captos’ in Ungheria e in Grecia.

Il 20 marzo 1703 il capitano di barca di ventura Coci Dimitri Tirandafilo dichiara di avere avuto incarico di riscattare dai turchi quattro schiavi di Taranto, ossia Antonio Francesco Batta, Antonio Minzulo, Cataldo Chierono, Antonio Nicola de Totero, e di avere riscattato gli stessi grazie a Giorgio Papa di Corfù con duecento dodici piastre siciliane di Spagna in argento, più cento quaranta piastre occorse per tramezzaneria di altri turchi ed il nolo della barca fino a Brindisi ove sono in quarantena i riscattati. E dice dell’aiuto ricevuto dall’Opera del monte della miseria di Napoli per quel riscatto. Mentre si trova in quarantena del porto di Brindisi il 29 giugno 1707, dichiara degli stessi aiuti dell’Opera, Stefano Papa, epirota della città di Salina, nipote di Giorgio Papa con il quale si dedica a riscattare cristiani da schiavitù da diverse parti di Turchia…»

Naturalmente, la bibliografia disponibile su questo argomento è voluminosa, più o meno antica e recente: sia quella generale relativa alla guerra barbaresca nel meridione d’Italia o al fenomeno storico della chiamata schiavitù mediterranea, e sia quella che sugli stessi temi è specialmente dedicata a alla storia della Puglia o del Salento in particolare. Classico è il già citato articolo del Panareo, pubblicato su Rinascenza Salentina del gennaio 1933, poi integrato da un altro articolo dello stesso autore, pubblicato su Archivio Storico Pugliese del 1951 “La pirateria e la Puglia”. Più direttamente sul Salento: “Per servizio della sua casa. Schiavi musulmani a Lecce e nel Salento in Età Moderna Secc. XVI-XVIII” di Mario Oronzo Spedicato – 2010. Infine, più di recente e con una visione globale della problematica relativa alla pirateria nel Mediterraneo, ci sono numerosi articoli e testi di Salvatore Bono, ad esempio “Guerre corsare nel Mediterraneo una storia di incursioni arrembaggi e razzie” – 2019.

Gianfranco PERRI
Brindisino, professore universitario e ingegnere progettista di gallerie. Appassionato studioso, scrittore e divulgatore della Storia di Brindisi, autore di numerosi articoli e vari volumi di storia brindisina. Residente a Miami, ma fedele e assiduo frequentatore di Brindisi e del Salento.